Avviso

Cari lettori,

se volete aggiungervi ai sostenitori, il riquadro che sta sotto l'elenco dei capitoli, cliccate sulla casella "segui" che si trova nel riquadro.

Se disponete già di un account google, cliccate sul link "google" che vi apparirà e accedete con il vostro indirizzo; infine cliccate su "segui questo blog".

Se non disponete di un account google, cliccate su "crea un nuovo account google", sempre dopo aver cliccato sulla casella "segui" e seguite il resto delle istruzioni precedenti.

FONTI:

lunedì 10 aprile 2017

Riassunti capitoli da XX a XXXVIII

CAPITOLO XX
Il Capitolo XX si apre con la descrizione del castello dove l'Innominato conduce la sua vita solitaria: un luogo elevato selvaggio e aspro nel quale solo i suoi amici e i suoi uomini osano avventurarsi. Al castello si accede attraverso una ripida strada in salita, all'inizio della quale, quasi fosse un posto di guardia, si trova la taverna della Malanotte. Don Rodrigo vi giunge e viene accolto da un ragazzaccio armato di tutto punto. Dopo aver deposto le armi, il signorotto viene accompagnato al castello dai bravi dell'Innominato, mentre i suoi accompagnatori, ad eccezione del Griso, devono rimanere alla taverna. Il ritratto dell'Innominato: un uomo sulla sessantina, dalla forza straordinaria. Don Rodrigo gli chiede di far rapire Lucia. Seppure a malincuore, l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto di Egidio, l'amante di Gertrude. Nella sua solitudine tremenda, l'Innominato ripensa ai suoi crimini e appare terrorizzato dall'idea della morte e del giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento di Lucia lo turba; ma per non ascoltare la voce della propria coscienza, egli invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi, da Egidio, per predisporre il piano criminoso. Convinta da Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude, nonostante le resistenze della ragazza, riesce ad inviare Lucia fuori dal convento, con il pretesto di portare un messaggio al padre guardiano dei cappuccini. Giunta in una strada solitaria, Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato e caricata a forza su una carrozza. Durante il viaggio verso il castello dell'Innominato, il Nibbio, pur bloccando con la forza i suoi tentativi di fuga, cerca di rassicurare la ragazza. Lucia, intanto, prega i suoi rapitori che la lascino andare; vista poi l'inutilità delle sue richieste, rivolge le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi rapidamente di Lucia e di farla condurre direttamente da don Rodrigo. Ma un no imperioso della sua coscienza gli consiglia di tenere ancora la fanciulla presso di sé. Il nobile manda dunque a chiamare una vecchia serva e le ordina di raggiungere la carrozza e di fare coraggio a Lucia. Il ritratto fisico e morale della serva: una vecchia decrepita, pigra e stizzosa. Lucia arriva al castello dell'Innominato.
CAPITOLO XXI
Lucia viene caricata su una portantina e, assieme alla vecchia incaricata dall'Innominato di farle coraggio, è trasportata al castello. Le preghiere di Lucia non commuovono la donna, ma le portano alla mente una religiosità dimenticata. Il Nibbio intanto corre dal suo signore per riferirgli l'esito della missione e confida al suo padrone di aver provato compassione per Lucia. Sorpreso dalle dichiarazioni del bravo, l'Innominato decide di vedere di persona la fanciulla. Lucia prega il nobile di liberarla, ricordandogli il perdono divino quale compenso per gli atti di misericordia. L'Innominato, sempre più turbato dalle preghiere della giovane, lascia intuire che la libererà l'indomani. Lucia rimane sola con la vecchia servitrice dell'Innominato, la quale, tra lo stizzito e il terrorizzato, cerca, in modo un po' goffo, di farle coraggio. La fanciulla rifiuta però il cibo e il letto preparati per lei e rimane accucciata a terra. Lucia resta in una condizione di dormiveglia e nella sua mente si affollano le immagini terribili della giornata. Risvegliatasi poi completamente, ella inizia a pregare e, in cambio della liberazione da quella prigione, fa voto di castità alla Madonna. Infine, rasserenata, si addormenta all'alba. Dopo il colloquio con Lucia, l'Innominato non riesce a liberarsi dall'immagine della fanciulla. Messosi a letto, egli cerca di recuperare il temperamento di un tempo, ma ogni pensiero di imprese criminose gli riesce sgradevole. Il futuro gli si presenta privo di interesse e il passato diventa una fonte inesauribile di rimorsi. Giunto ormai alla disperazione, si appresta al suicidio, ma l'eventualità che esista una vita eterna lo induce a desistere. Il ricordo delle parole di Lucia sul perdono divino riaccende però in lui la speranza. L'Innominato decide che libererà la fanciulla il giorno successivo. All'alba, il nobile sente un suono allegro di campane e vede gente festosa nella valle. Incuriosito egli incarica un suo bravo di verificare le ragioni di tanta animazione.
CAPITOLO XXII
Un bravo informa l'Innominato che i villaggi vicini sono in festa per la visita del vescovo. Rimasto solo, il nobile si interroga sui motivi che spingono a festeggiare l'arrivo di quell'uomo. Poi, spinto dal desiderio di ascoltare parole di consolazione, decide di recarsi a colloquio con lui. Prima di scendere in paese egli passa a far visita a Lucia, sua prigioniera. Trovandola addormentata, ordina alla vecchia di farle nuovamente coraggio, poiché egli farà tutto ciò che ella vorrà. L'Innominato giunge in paese tra lo stupore e il timore della gente, che non lo ha mai visto senza un seguito di bravi. Fattosi indicare il luogo ove poter trovare il cardinale, vi si reca, seminando inquietudine tra i sacerdoti lì raccolti e nell'animo del cappellano crocifero al quale egli chiede di poter vedere il vescovo. Federigo nasce da una delle più illustri famiglie lombarde, della quale fa parte anche il vescovo di Milano, Carlo Borromeo, beatificato pochi anni dopo. Fin dall'infanzia pone attenzione al rispetto dei principi cristiani. Adolescente, Federigo sceglie la vita consacrata e, nel collegio di Pavia, si dedica allo studio, alla catechesi e ad opere di carità. La sua vita è un esempio di fede e di profonda umiltà. Nominato vescovo di Milano, Federigo continua, malgrado la prestigiosa carica, la sua scelta di vivere all'insegna della povertà e della carità. All'impegno pastorale aggiunge quello culturale, fondando la biblioteca Ambrosiana: un'istituzione innovativa che fa del suo fondatore un precursore dei moderni uomini di cultura. Il carattere mite e affabile completa poi il ritratto morale di Federigo, facendone un esempio di vita cristiana, pur non privo di difetti sotto il profilo delle opinioni in materia di scienza e cultura.
CAPITOLO XXIII
Il cappellano crocifero avverte il cardinale Federigo della visita dell'Innominato, e, nel contempo, lo invita a non riceverlo perché si tratta di un uomo pericoloso. Il vescovo invece insiste per vederlo immediatamente. Borbottando tra sé, il cappellano introduce l’Innominato e il vescovo lo accoglie a braccia aperte. Con un fare cortese e con parole amichevoli, Federigo mette l'Innominato a proprio agio e lo induce a rivelare i suoi turbamenti. Gli parla poi del perdono divino e a quelle parole, l'Innominato scoppia in pianto: la sua conversione è avvenuta e i due possono abbracciarsi. Il nobile racconta poi al vescovo del rapimento di Lucia e dichiara di volerla liberare al più presto. Federigo manda a chiamare il cappellano, il parroco del paese e don Abbondio, affinché si possa organizzare la liberazione di Lucia. Il cappellano annuncia la conversione dell'Innominato ai sacerdoti riuniti, poi chiama il parroco e don Abbondio. Quest'ultimo si fa avanti svogliatamente e dopo alcuni tentennamenti. Al parroco del paese, il cardinale ordina di trovare una donna che faccia coraggio a Lucia durante la sua liberazione. A don Abbondio chiede invece di accompagnare l'Innominato fino al castello per prendersi poi cura della fanciulla: il curato accampa scuse per evitare di viaggiare con quell'uomo che lo spaventa, ma alla fine è costretto ad eseguire gli ordini. L'Innominato e don Abbondio si apprestano ad iniziare il viaggio assieme al lettighiero del vescovo e a una donna incaricata dal parroco. Nell'attraversare la piazza gremita di gente, l'Innominato è guardato con ammirazione dalla folla che ha già saputo della sua conversione. Usciti dall'abitato, don Abbondio, ancora dubbioso circa il reale pentimento di quell'uomo, comincia un lungo soliloquio nel quale se la prende con coloro che hanno minacciato il suo quieto vivere. Accusa don Rodrigo di cercare sempre guai e di coinvolgervi anche gli altri. All'Innominato rimprovera il troppo clamore suscitato dalla sua conversione e al cardinale, la precipitazione nel fidarsi del nobile e, soprattutto, nell'affidargli il destino di un sacerdote. L'Innominato intanto, appare turbato dai rimorsi e dalle preoccupazioni per la nuova vita. Il gruppo oltrepassa la Malanotte e giunge nei pressi del castello, dove i bravi guardano il loro signore con perplessità e rispetto. Una volta arrivati sulla spianata antistante il castello, il nobile prega la donna di far subito coraggio a Lucia; poi l'accompagna, assieme a don Abbondio, nella stanza dov'è rinchiusa la ragazza.
CAPITOLO XXIV
Lucia, ancora sotto la guardia della vecchia, sente l'Innominato bussare alla porta e, subito dopo, vede entrare nella stanza una donna e don Abbondio. La fanciulla rimane sbalordita, ma viene rincuorata dalle buone parole della donna e dalle rassicurazioni del curato, il quale, desideroso di uscire al più presto da lì, la invita a sbrigarsi. Nell'uscire, Lucia incontra poi l'Innominato e, dopo un primo moto di paura, trova la forza per ringraziarlo. Lucia e la donna salgono infine sulla lettiga e il gruppo si avvia verso il villaggio. Sulla lettiga, la donna continua a rassicurare Lucia e la informa sull'identità dell'Innominato. A quella rivelazione la ragazza ha un nuovo sussulto e grida al miracolo. Scendendo assieme alla donna, a Lucia e all'Innominato dal castello di quest'ultimo, don Abbondio è colto da nuovi timori. Da prima teme che la mula che sta cavalcando lo getti nel precipizio; poi che i bravi dell'Innominato lo martirizzino; infine teme che don Rodrigo possa attribuirgli un qualche ruolo in quella conversione e nella liberazione di Lucia. Il curato, sempre parlando con se stesso, se la prende dunque con il vescovo. Infine stabilisce di affidare alle chiacchiere di Perpetua il compito di riferire a don Rodrigo la propria completa estraneità ai fatti, e, giunto in paese, si avvia verso la propria parrocchia senza neppure salutare il cardinale. Dopo la liberazione, la donna che l'ha accompagnata fa accomodare Lucia in casa propria e comincia a preparare il pranzo. La fanciulla intanto, ripensando al voto di castità pronunciato la notte precedente, si pente di ciò che ha fatto, ma subito dopo rinnega quel pentimento momentaneo. Nella casa fanno il loro ingresso il capo famiglia, il sarto, e i figli. L'uomo, un popolano amante della lettura, parla diffusamente della predica del cardinale e dell'obbligo alla carità. Poi, per mettere in pratica quelle parole, fa portare da una della figlie del cibo ad una famiglia povera del vicinato. Intanto Agnese, condotta verso la casa del sarto, incontra don Abbondio il quale la rassicura circa la sorte di Lucia e le raccomanda di tacere a proposito del mancato matrimonio. Giunta poi a destinazione, Agnese riabbraccia la figlia e le due donne possono scambiarsi notizie. Agnese e Lucia ricevono poi la visita del vescovo e Agnese svela i particolari della vicenda, mettendo l'accento sulle colpe di don Abbondio e omettendo ogni riferimento al matrimonio di sorpresa. Ma Lucia, per amore di verità rivela anche quell'aspetto. Al termine del colloquio il cardinale si trattiene con i padroni di casa, e il sarto, che vorrebbe far bella figura con qualche citazione dotta, non riesce quasi a parlare. Prima di andarsene, Federigo promette di cercare notizie di Renzo. Parlando poi con il parroco, il vescovo individua il modo di ricompensare il sarto per la sua generosità: pagherà i debiti che gli abitanti del villaggio hanno contratto con lui. Rientrato al castello, l'Innominato convoca i suoi bravi con la consueta autorità. Egli comunica loro la sua conversione e dà nuove disposizioni affinché nei suoi territori non si commettano più violenze e iniquità. I bravi accolgono il cambiamento con atteggiamenti diversi, ma nessuno osa replicare. Infine, dopo aver ritrovato la forza e le parole per pregare, l'Innominato si acquieta, viene colto dal sonno, e si addormenta.
CAPITOLO XXV
Nel paesello di Renzo e Lucia giunge la notizia del rapimento e della successiva liberazione, da parte dell'Innominato, di Lucia. All'udire il racconto di quei fatti, la gente trova il coraggio per manifestare il suo odio verso don Rodrigo, il podestà, Azzecca-garbugli e tutti gli altri amici del signorotto. Quest'ultimo, infastidito da quelle chiacchiere e desideroso di non incontrare il cardinale Federigo, il quale ha annunciato una visita al paese, parte alla volta di Milano accompagnato dal Griso e dagli altri bravi. Gli abitanti del villaggio di Renzo e Lucia accolgono festosamente il vescovo in visita; solo don Abbondio, infastidito da tutta quell'animazione e preoccupato per i possibili rimproveri di Federigo, non condivide la gioia generale. Dopo un primo colloquio tra il cardinale e il curato, viene inviata una lettiga alla casa del sarto per riportare Agnese e Lucia al paese, per discutere con loro di una futura sistemazione. Durante la loro permanenza presso la casa del sarto, Agnese e Lucia ritrovano una certa serenità, sebbene i discorsi su Renzo restino molto tristi. Lucia rimane sempre al riparo dagli sguardi indiscreti, ma, cedendo alle insistenze del sarto e dell'aristocratica donna Prassede, è costretta a recarsi nella villa di quest'ultima per un incontro. Donna Prassede, incuriosita dalla vicenda di Lucia, offre ospitalità e riparo alla giovane. L'intento della nobildonna non è però solo quello di proteggere la ragazza, ma anche quello di indurla a dimenticare quel Renzo che, secondo donna Prassede, è un poco di buono. Scopriamo così che la nobildonna è una superficiale che esercita la carità senza realmente volere il bene del prossimo. Ottenuto l'assenso da parte di Lucia, la nobildonna fa redigere dal marito, don Ferrante, una lettera indirizzata al vescovo, nella quale si comunica la soluzione adottata per la protezione di Lucia. Tornate al paese, Lucia e Agnese incontrano immediatamente il vescovo, il quale, letta la missiva di donna Prassede, accetta quella soluzione. Uscite poi dalla canonica le due donne vengono accolte con gioia dai compaesani. Inizia un nuovo colloquio tra don Abbondio e Federigo. Il vescovo chiede spiegazioni al curato circa il rifiuto di celebrare il matrimonio. Il curato cerca di mentire, di eludere la domanda, ma alla fine rivela quasi tutto. Il cardinale rimprovera severamente don Abbondio per aver anteposto la paura per la propria vita ai doveri sacerdotali, ma il parroco sembra incapace di comprendere il vero significato delle parole di Federigo.
CAPITOLO XXVI
Il capitolo XXVI si apre con Don Abbondio che cerca di rispondere alle domande del cardinale Federigo che diventano sempre più incalzanti. Infatti, sul curato, pesa un’altra grave accusa: quella di non avere sposato i due promessi. Don Abbondio chiede a Federigo cosa avrebbe potuto fare se non comportarsi in questo modo. Il cardinale, in un primo momento, risponde che avrebbe dovuto fare il suo dovere e sposarli, poi, che invece avrebbe potuto chiedere l'intervento del suo vescovo. Ma Federigo non vuol fare l'inquisitore: ha capito di quale stoffa sia il curato e pur non perdonandolo, lo conforta a sperare e lo esorta alla resistenza in nome dei grandi valori della religione: la vita nostra deve essere misurata e valutata non sullo sfondo delle cose terrene ma di quelle eterne dell'aldilà. Dall'Innominato intanto giunge al cardinale una lettera con cento scudi: dovranno servire per la dote di Lucia. Ma questa, messa alle strette, ora rivela alla madre il voto: la esorta alla pazienza e a mandare la metà della somma a Renzo. Di Renzo nello Stato di Milano nessuno sa niente, nemmeno il cardinale riesce a sapere qualcosa. Questo perché Renzo, avvertito che era ricercato dalla polizia di Venezia incaricata da quella di Milano, aveva su suggerimento del cugino cambiato nome in Antonio Rivolta e cambiato filanda.
CAPITOLO XXVII
L’autore si appresta a fornire informazioni sulla guerra per la successione al ducato di Mantova e del Monferrato. Morto Vincenzo Gonzaga, gli succede Carlo Gonzaga, del ramo francese di Nevers. La Spagna gli contrappone, per Mantova, Ferrante Gonzaga principe di Guastalia, e per il Monferrato Carlo Emanuele I° di Savoia. Don Ponzalo, governatore di Milano, vuol fare una guerra in Italia per desiderio di gloria personale e si allea con il duca di Savoia, per dividere con lui il Monferrato. Porta pertanto l’assedio a Casale, ma l’operazione si rivela lunga e infruttuosa. La sua protesta presso la Repubblica veneta a proposito della fuga di Renzo si rivela dovuta a contingenti motivi politici, ma, passato il momento, il governatore non intende più occuparsi del personaggio. Nel frattempo Renzo vuol far avere sue notizie alle due donne, ma, non sapendo scrivere, deve ricorrere a chi lo sa fare e renderlo partecipe dei suoi segreti. Si avvia così un carteggio, né rapido, né regolare con Agnese. L’operazione di comunicare attraverso la mediazione di scrittori di professione e lettori letterati si rivela infatti assai complessa. Il giovane in ogni modo riceve da Agnese i cinquanta scudi dono dell’ Innominato, indecifrabili notizie attorno al voto di Lucia e il consiglio di mettersi il cuore in pace. Ma egli rifiuta decisamente il suggerimento e dichiara di tenere il denaro come dote di Lucia. Costei, quando viene a sapere che Renzo è sano e salvo, prova un gran sollievo e desidera solo che egli “pensi a dimenticarla”, proponendosi di fare altrettanto. A complicare le cose interviene donna Prassede, che cerca ogni occasione per parlare di Renzo come di un delinquente, pensando così di farlo dimenticare a Lucia. La giovane si sente continuamente costretta a difendere il suo promesso e si trova dunque in un gran turbamento. Per fortuna Lucia non è l’unica persona che donna Prassede si propone di guidare. Dispone infatti di numerose figlie e di un marito, don Ferrante, uomo di studio cui non piace né comandare, né ubbidire: lascia dunque alla moglie il governo della casa, ma è geloso della propria indipendenza. Il suo regno è la biblioteca, dove ha raccolto più di 300 volumi. Risulta così più che un dilettante in astrologia; in filosofia le sue preferenze vanno ad Aristotele; più che delle scienze naturali approfondiscono lo studio della magia e della stregoneria, perché si tratta di difendersi dalle malie altrui. Addottrinato nella storia e nella politica, merita e gode del titolo di professore nella scienza cavalleresca, tanto da essere interpellato spesso in affari d’onore. Ma qui il narratore si ferma, per non meritare dal lettore, insieme con l’Anonimo, il titolo di seccatore. Trascorre un anno, in cui non si registra alcun mutamento nelle condizioni dei personaggi. E’ invece la storia “grande” che si appresta a sconvolgere, come un turbine vasto, con avvenimenti generali e drammatici, anche la vita dei più umili.
CAPITOLO XXVIII
Il narratore si accinge a rievocare i grandi eventi storici che coinvolgeranno i personaggi del romanzo. Riprendiamo il racconto della storia milanese dal tumulto si San Martino, egli osserva che le disposizioni delle autorità che hanno stabilito il prezzo politico del pane e della farina conducono la popolazione ad un consumo senza risparmio che aggrava la condizione di scarsità delle scorte. Le leggi cercano di portare dei correttivi e minacciano gravi pene ai trasgressori finché, intorno alla data dell’esecuzione dei quattro disgraziati ritenuti responsabili del tumulto, quella tariffa violenta viene abolita. Ma ormai le condizioni della carestia sono gravissime e il narratore, sulla scorta delle relazioni del tempo, intende farne un ritratto. Il lavoro è fermo e Milano è ridotta ad un indicibile spettacolo. Ai mendicanti di mestiere si aggiungono i nuovi poveri dei ceti ridotti in miseria: garzoni, operai, servitori licenziati ed anche bravi. Ma il peggiore spettacolo è offerto dai contadini che dalle campagne si riversano nella città, nella speranza di un qualche sussidio o elemosina. Le morti diventano sempre più frequenti. Numerosi sono però anche i segni della carità: sia quella dei singoli, sia quella organizzata in grande dal cardinal Federigo, che aveva scelto sei preti che girassero per la città e soccorressero i casi più gravi. Ma il bisogno è così diffuso che la carità è costretta a scegliere e non basta a portare un rimedio sufficiente. Il contrasto tra ricchezza e povertà, caratteristico del secolo, è ora attenuato, perché i nobili mantengono solo un’apparenza di parca mediocrità. In tali condizioni si profila il pericolo di contagio. Dopo molte esitazioni viene deciso di concentrare tutti gli accattoni nel lazzaretto, un edificio costruito precedentemente per accogliervi gli ammalati di peste. Quelli che vi entrano volontariamente sono pochi, pertanto si ricorre alla costrizione. Nel lazzaretto le condizioni di sovraffollamento, di mancanza d’igiene e di promiscuità rendono ancora più penosa la convivenza e la mortalità aumenta. Il provvedimento viene così annullato e la città torna a risuonare dell’antico lamento. Intanto però è pronto il nuovo raccolto: i contadini tornano al loro lavoro, cessa la carestia e la mortalità diminuisce. Ma si profila il nuovo flagello della guerra. Gli intrighi diplomatici tra i grandi, dopo aver posto fine all’assedio di Casale, portano l’ esercito imperiale a percorrere il Milanese per recarsi all’assedio di Mantova. Le truppe di Lanzichenecchi, soldati di mestiere che lo compongono, portano con sé la peste, ma le autorità sottovalutano questo pericolo. Rimosso per i cattivi successi della guerra, don Ponzalo lascia Milano accompagnato dagli scherni del popolo che lo incolpa della fame sofferta sotto il suo governo. Come tutti gli eserciti del tempo, anche quello tedesco pratica il saccheggio dei paesi che incontra nel proprio tragitto e la sua discesa attraverso la Valtellina e la Valsassina porta terrore e distruzione.
CAPITOLO XXIX
Intanto Don Abbondio, ricevuta notizia dell'arrivo dell'armata, risoluto di andarsene prima di tutti, seguiva Perpetua, in quanto incapace di ragionare per la paura. Egli implorava aiuto dalla finestra ai suoi parrocchiani, ma quelli indaffarati nella fuga non li badarono minimamente. Poi, entrò Agnese che propose ai due di recarsi con lei presso l'Innominato, così tutti e tre presero per i campi, seppur Don Abbondio brontolasse. Si ritrovarono nel paese del sarto e si recarono a fargli visita; questo fece cogliere fichi, pesche, fece cuocere castagne e si mise a parlare del buon ricovero che avevano scelto presso l'Innominato. Don Abbondio aveva fretta, così il sarto trovò un baroccio per la seconda metà del viaggio. L'Innominato dal giorno della conversione era sempre intento a far del bene e in questi momenti aveva fatto spargere la notizia che la sua casa è sempre aperta ai bisognosi, mettendo alcuni contadini di guardia al castello, facendo giungere inoltre provvigioni per tutti i suoi ospiti.
CAPITOLO XXX
Nel capitolo 30, Don Abbondio, Agnese e Perpetua sono presso l’Innominato. Sembra che ogni cosa infastidisca e impaurisca Don Abbondio. L’accoglienza presso l’Innominato è come le donne si aspettavano, e questi rassicura gli ospiti dicendo che se anche i lanzichenecchi avessero dovuto attaccare, loro sarebbero stati pronti a combattere e quindi sarebbero stati al sicuro. Agnese e Perpetua decidono di aiutare dentro il castello per non essere troppo di peso all’ Innominato. Don Abbondio non ha di queste esigenze e passeggia nervosamente da una stanza all’altra tutto il giorno. L’ Innominato vorrebbe entrare in contatto col curato, che essendo un uomo di Chiesa, considera quasi al suo pari. Don Abbondio tenta in ogni modo di evitare qualsiasi dialogo con l’Innominato, di cui ha un terrore folle e di cui non si fida pienamente. Trascorso qualche giorno dal passaggio dei lanzichenecchi, i tre lasciano il castello dell’Innominato per ultimi, dopo tutti gli altri ospiti di questi, perché Don Abbondio voleva essere certo di non trovare lanzichenecchi per la strada. La casa del sarto non ha subito danni perché era fuori dall’itinerario. La loro invece è stata saccheggiata e anche il tesoro che Perpetua aveva nascosto in giardino è stato rubato. Don Abbondio per questo l’accusa di non aver pestato bene la terra dopo averlo sotterrato e Perpetua allora si arrabbia e gli fa notare che lui, oltre a non essere stato d’aiuto in nessun modo era stato anzi d’impiccio. La gente ha rubato anche tovaglie pregiate e altre cose di Don Abbondio, e questi, che ha paura di tutto e di tutti, non si sogna nemmeno di andare a riprendersele, e per questo Perpetua gli da’ del vigliacco. Manzoni scrive alcune pagine pacate sulla peste in cui descrive la morte, la carestia, la disperazione di questa gente, descrivendo vari episodi. In questo periodo, per diversi motivi, non si hanno le cure adeguate per la peste. Tadino e Ripamonte sono due storici che si interessano al problema della peste, più che altro tentando di scoprire chi l’aveva portata. Il marito di Donna Prassede, Don Ferrante, ritiene che, siccome la peste non si vede e non si tocca, non esiste. Egli muore di peste. Il governo tenta di tacitare la malattia e i suoi effetti.
CAPITOLO XXXI
Nel capitolo 31 Manzoni mette in evidenza il comportamento di una popolazione spaventata. La peste agisce generalmente in poche ore, a volte di più, ma comunque in tempi brevi, portando rapidamente alla morte dei contagiati. In pochi casi si guarisce e allora si è immuni. La peste provoca la degenerazione delle ghiandole linfatiche in bubboni (da qui il nome, peste bubbonica). Vengono organizzate riunioni all’ aperto per pregare insieme Dio che faccia scomparire questa terribile malattia, il che, invece di fermare la diffusione di questa malattia, la accelera, perché la gente sana stando a contatto con quella malata, veniva contagiata facilmente. Gli abitanti iniziano addirittura a pensare che ci sia qualcuno che di proposito diffonde la malattia, gli untori. In realtà gli untori non esistono, ma si sono verificati casi in cui il popolo, spinto dalla disperazione, ha deciso di uccidere qualcuno sospettato di aver diffuso intenzionalmente la peste. Un esempio è il vecchio che fu ucciso perché in Duomo, prima di sedersi, aveva spazzolato la panca sporca con il cappello, ed era stato accusato di star spargendo la malattia.
CAPITOLO XXXII
Poiché la situazione diviene sempre più grave, il Consiglio dei Decurioni chiede sussidi al governatore e chiede al cardinale arcivescovo che si faccia una processione solenne. Il cardinale non vorrebbe, in quando sarebbe un’occasione di delitto agli untori e di espansione del contagio, ma poi cede. La processione si svolge ampia e solenne per le strade principali della città: vi partecipano tutti i cittadini che ancora si reggono in piedi. Ma il giorno dopo la mortalità aumenta in misura tale che tutti si rendono conto che la processione sia stata un errore. Alla fine, di peste morranno i due terzi della popolazione, circa tremila persone al giorno. Bambini, donne e vecchi furono i più esposti all’epidemia. Nel lazzaretto, che ormai non basta più, è un via vai di malati che vi sono fatti affluire e di morti che vengono avviati alle fosse comuni. La città è attraversata da carri guidati dai monatti, incaricati della raccolta dei malati: si tratta di gente che ha avuto la peste e ne è immunizzata. La popolazione superstite vive nello stato d'animo di chi si vede costantemente e misteriosamente minacciato da un nemico subdolo e potentissimo. Tutti vivono nella paura: dappertutto si crede di vedere degli untori. Tuttavia c’è qualcuno che ragiona, ma deve stare zitto per prudenza. Tra i magistrati regnano lo smarrimento e la confusione. I sospetti si ingigantiscono e su moltiplicano.
CAPITOLO XXXIII
Una notte, verso la fine d’agosto, proprio nel colmo della peste, don Rodrigo, tornando a casa da una festa con tre amici suoi e il Griso, inizia ad avvertire uno strano malessere. Arrivato a casa, se ne va a letto e tenta di dormire, ma il malessere cresce fino a quando scopre un bubbone. Chiede aiuto al Griso perché chiami un chirurgo che per denaro tiene nascosti i malati: il Griso chiama invece i monatti che lo portano al lazzaretto. Ma prima del padrone muore di peste anche il Griso. Anche Renzo si ammala di peste, ma guarendo, decide di andare a cercare Lucia. Nessuno in tanta confusione si curerà di lui e dei suoi conti con la Giustizia. Salutato il cugino Bortolo, riattraversa l'Adda e si affaccia al suo paese. Dovunque imperano i segni della morte, dell'abbandono, della sofferenza. Verso sera arriva al suo paese e per primo incontra Tonio, seminudo, inebetito dalla peste. Invano Renzo gli parla, ma Tonio non lo riconosce. Incontra dopo don Abbondio che ha perduto Perpetua: è mal messo ma si preoccupa della presenza di Renzo per lui fonte di guai. Renzo apprende che Agnese è a Pasturo. Per la notte trova rifugio in casa di un amico. L'indomani decide di recarsi a Milano in cerca di Lucia.
CAPITOLO XXXIV
Renzo riesce a entrare in Milano, basta una moneta per ottenere il rapido consenso della guardia. Entrando in città scorge dovunque i segni terribili del morbo e della desolazione. . L'attenzione di Renzo è poi richiamata dalle invocazioni di una donna sequestrata in casa con i suoi bambini, perché il marito è morto di peste. La donna rischiava di morire di fame. Renzo le porge il poco pane di cui dispone e si incarica di avvertire qualcuno. Infatti poco dopo incontra un prete, al quale affida la donna e gli chiede informazioni su dove abita donna Prassede. Ma via via che scorre lungo i quartieri della città, da quelli periferici a quelli del centro, Renzo si imbatte in scene raccapriccianti di dolore e di morte. Carri guidati da monatti erano adibiti alla raccolta dei malati o dei cadaveri. Assiste all'episodio della madre di Cecilia, una bambina morta di peste. Riesce poi a trovare finalmente la casa di don Ferrante, ma qui apprende che Lucia è al lazzaretto, l'ospedale degli appestati. Scambiato per un untore, riesce a stento a sottrarsi a un gruppetto di gente imbestialita, saltando su di un carro di monatti. Renzo non vede l’ora di lasciare quella turpe compagnia e, appena gli pare riconoscere la strada, a Porta Orientale, scende dal carro. Il lazzaretto non è lontano. Renzo entra e si ferma un momento in mezzo al portico a contemplare quel mare di dolore.
CAPITOLO XXXV
Renzo entra nel lazzaretto: un insieme di capanne e di fabbricati posticci, alzati per la circostanza, accanto ad altri in muratura. Il luogo è orribile, e l’orrore è accresciuto dall’aria afosa e dal cielo plumbeo. Si va, infatti, avvicinando un temporale. Renzo si accorge di essere entrato nel reparto degli uomini. La visione generale è quella che insorge da un luogo che è un condensato, un contenitore di grandi sofferenze su cui incombe l'aria ed il cielo nebbioso. Il primo gruppo di malati, collocati a parte, dentro un recinto, è quello dei bambini allevato da nutrici e da capre: alcuni sono neonati ed hanno bisogno di costante cura ed attenzione. Molte donne guarite dalla peste provvedono alla cura dei bambini: ma anche le capre, quasi consapevoli della grande sofferenza, offrono mansuete il proprio latte ai bambini. Tutto commosso Renzo riprende a camminare. Ed ecco un’apparizione improvvisa: il padre Cristoforo. Il padre dopo essere stato per anni a Rimini, per pressioni esercitate sui superiori ha ottenuto di essere richiamato a Milano e di essere adibito al servizio dei malati. Renzo gli fa un succinto riassunto delle sue avventure e dice di essere nel lazzaretto in cerca di Lucia. Potrebbe essere, se è ancora viva, nel recinto assegnato alle donne: è proibito entrarvi. Ma il padre lo autorizza date le buone intenzioni che lo animano. Renzo si dice pronto a fare vendetta su don Rodrigo, che è all'origine di tutte le disavventure sue e di Lucia. E a questo punto padre Cristoforo lo redarguisce e alla legge di vendetta contrappone la legge cristiana del perdono e della carità. Lui, che ha fatto l'esperienza dell'assassinio di un uomo, sa quanto arida sia la strada della vendetta e quanto allontani da Dio e quindi dall'umanità la ricerca di una giustizia che impone morte per morte. La vera giustizia è la carità che compensa la morte di un uomo con la crescita ideale di nuova umanità. Renzo convinto si dice disposto al perdono del suo avversario. E il frate lo conduce in una capanna dove gli mostra don Rodrigo moribondo Esortato dal padre, Renzo china il viso e prega Dio per il suo persecutore. Purificato da quell’atto di perdono, Renzo può ora tornare a cercare la sua Lucia.
CAPITOLO XXXVI
Renzo riprende lungo il lazzaretto la sua ricerca di Lucia: come cercare un ago nel pagliaio. Al centro, quasi punto di riferimento e di convergenza, la cappella a pianta centrale, con un portico che girando intorno lascia la vista dell’altare da qualunque posizione ci si volga verso di esso. Intanto la precessione dei guariti o avviati a guarigione comincia a riunirsi intorno, guidata dal padre Felice, che si volge ai malati e ai convalescenti e li saluta prima che essi ritornino alle loro case, alle solite occupazioni. Finita la processione, Renzo si avvia nei reparti riservati alle donne: quando sembra avviato a disperazione, postosi accanto ad una capanna ne sente venire una voce inconfondibile, quella di Lucia. Là ritrovata e con la solita generosa impetuosità vorrebbe che le cose tornassero come prima. Il voto, che ancora Lucia insiste a voler rispettare, a lui sembra il frutto di una mente turbata, quindi una cosa sconclusionata. Contro la fermissima opposizione di Lucia, non c’è nessuno che possa sciogliere la difficoltà, tranne padre Cristoforo che, chiamato, ascolta da Lucia tutta la storia del voto, comprende che si tratta di un gesto nobile ma viziato all’origine: era stato fatto senza tener conto che lei s’era promessa a . Padre Cristoforo dice a Lucia che se lei lo consente, può essere sciolta dal voto. Così padre Cristoforo pronuncia la formula di scioglimento, ed insieme dà ad ambedue un avvertimento e un consiglio: possono tornare come promessi sposi ai pensieri di una volta ma si ricordino che la vita deve essere spesa nella ricerca del bene e che le sofferenze patite devono disporli ad un’allegrezza raccolta e tranquilla. Così si congeda il frate, con ormai nel volto i segni della morte imminente. Lucia resta nella capanna ad assistere la mercantessa che le si è affezionata. Renzo decide di partire subito e andare alla ricerca d’Agnese. Il tempo che era prima afoso e nebbioso è percorso da rumor di tuoni, ora sembra voler precipitare in forma di burrasca.
CAPITOLO XXXVII
Uscito dal lazzaretto Renzo è sorpreso da un temporale, quello che porterà via la peste. Arrivato dall’ amico, si riposa in casa sua fino al giorno dopo e poi va a Pasturo. Qua trova Agnese, che gli fa gran festa. Renzo ritorna poi a Bergamo dal cugino Bortoloper cercarsi una casa. Da lì è di nuovo al paesello con Agnese ad attendervi Lucia che, trascorsa la quarantena, si accinge a ritornare. Prima della partenza, Lucia apprende la morte di padre Cristoforo, il processo contro la monaca di Monza, costretta ora alle penitenze più austere perché sospettata di atroci delitti, e la morte anche di donna Prassede e don Ferrante.
CAPITOLO XXXVIII
Lucia finalmente ritorna al suo paesello. Don Abbondio si decide finalmente a sposare i due giovani, ma soltanto quando viene a sapere che il palazzo di don Rodrigo è ora occupato dall'erede di lui, un marchese, «bravissim'uomo» che ha saputo della storia di Lucia e di Renzo, e è disposto ad acquistare ad alto prezzo le loro casette e a liberare Renzo dall'imbroglio di Milano. I due sposi, con Agnese, si trasferiscono a Bergamo, dove la famiglia e gli affari prosperano. Il romanzo termina con la celebre morale messa in bocca a Lucia: «...lo non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me... i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani...».

Nessun commento:

Posta un commento